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Life on Mars - La Rubrica di Vittorio Schiavone - Le premesse della morte

Vittorio Schiavone • set 24, 2023

Chi fa il mio mestiere ha una certa consuetudine con la morte. No, non intendo il medico, che spesso ha a che fare con la gente che muore: intendo lo psichiatra, e più precisamente il fatto che questi ha a che fare con l’idea della morte più che con la morte stessa. Così, se la morte rappresenta un evento poco consueto se non eccezionale, la sua idea lo psichiatra la frequenta giornalmente, fino quasi a diventargli familiare.

Ne parla Vittorio Schiavone, primario alla Clinica Hermitage di Capodimonte (Na)

“Dottore, io prima o poi mi ucciderò”. Chi fa il mio mestiere ha una certa consuetudine con la morte. No, non intendo il medico, che spesso ha a che fare con la gente che muore: intendo lo psichiatra, e più precisamente il fatto che questi ha a che fare con l’idea della morte più che con la morte stessa. Così, se la morte rappresenta un evento poco consueto se non eccezionale, la sua idea lo psichiatra la frequenta giornalmente, fino quasi a diventargli familiare.


Alzi la mano chi non ha mai pensato alla morte. Sono certo che quasi tutti quelli che stanno con il braccio proteso al cielo lo lascerebbero lì nella stessa posizione se chiedessi loro se hanno mai pensato di uccidersi. Io stesso l’ho fatto, almeno in un paio di occasioni, senza che ciò facesse di me un aspirante suicida. Potenziali suicidi, del resto, lo siamo tutti, a rigore di logica; e, con la morte, la logica c’entra più di quanto poeticamente vogliamo pensare. Ci sono due categorie di persone che pensano ad uccidersi. La prima è quella che ha un approccio filosofico: è quella del male di vivere, uno spregio ed un peso per la vita che pesca nell’esistenzialismo, o in qualche altra corrente o pensiero di cui so poco o nulla. Ecco, questo non è il mio campo ed io non posso farci nulla, perché non sono né un filosofo né un prete.


La seconda, invece, è quella dei sofferenti, quella categoria di persone che stanno terribilmente o modicamente male (ma a loro sembra legittimamente di stare male di più) e che pensa alla morte come soluzione. Ecco, per questi ultimi io posso provare a fare qualcosa, tentando di aiutarli a risolvere la loro sofferenza, offrendo loro una soluzione alternativa e meno definitiva. Meno drammatica, sicuramente, ma di certo efficace. Ecco, con questi ultimi può provare a lavorare uno psichiatra. Questa è la premessa. Ma cosa vuole dirci davvero chi ci dice di volersi suicidare? Talora è una comunicazione, talaltra una confessione, un manifesto programmatico, in altre occasioni ancora. Spesso le circostanze sono le medesime: lo studio, in compagnia di un familiare o nel segreto della terapia, con rabbia vera o simulata lucidità.


Non è questo il discrimine, ma la sensazione che lo psichiatra ne riceve: è quella sensazione, di angoscia o di rabbia o di fastidio che gli nasce dentro a fare la differenza. Ma, se questa differenza è fondamentale perché lui sappia cosa fare, la decodifica di primo livello è sempre la stessa: chi mi sta di fronte sta formulando una richiesta di aiuto. Si può decidere di accoglierla come si crede, secondo il proprio stile e secondo la relazione terapeutica stabilita, ma non la si può lasciare cadere. “Non ho forse la libertà di morire?”. Certo, ma solo se hai la libertà di deciderlo pienamente. Non quando è il malessere, non quando è la sofferenza, non quando è il disturbo a parlare per te. Ciò vale anche quando ai pensieri di suicidio non segue la volontà di suicidarsi, quando questa promessa di morte ha il significato di ogni promessa: un legame a due o più. “Ti prometto che se…”, un legame indipendente dal realizzarsi o meno di quel “che se…”.


Io ti lego a me con questa minaccia, e mi lego a te con questa promessa. Io non voglio morire, ma ti prometto che morirò; tu sai che io non voglio morire, ma temi che lo farò. Proprio come il bastone che si lancia al cane, ma senza alcuna forma di gioco, di divertimento, di leggerezza. Il gioco della morte: non vietato ai minori, ma spesso con la necessità di supervisione dei genitori. Un gioco che noi psichiatri continuiamo a giocare a casa nostra e che non ci abbandona mai; una sorta di Jumanji al contrario in cui il gioco è una realtà, mentre quella nella testa del paziente è un’altra realtà. Ma questa è una storia da raccontare in una puntata successiva. “Non questa settimana, Cecilia, perché mi devi una seduta, e chi si suicida con un debito con il suo psicoterapeuta va all’inferno”. “Le posso fare un bonifico…”. “Un bonifico? Quale volgarità! Siamo forse così distanti, io e te?”. Sorrise, forse ero riuscito a fregare la morte un’altra volta.

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