Scena muta all'esame: ma la questione principale resta il valore legale dei titoli di studio - di Mario Sorrentino

Mario Sorrentino • 2 luglio 2024

Sull’esame di maturità si sta ripetendo il solito copione che va in scena in Italia: si fugge dal nodo centrale del problema. La questione principale non ruota tanto intorno all'imparzialità dei commissari interni o esterni, ma al valore legale del titolo di studio. Infatti, bisogna considerare che università e mondo del lavoro non si fidano delle valutazioni ottenute dagli studenti nella prova che conclude il loro percorso di studio, non le ritengono veritiere e corrispondenti al reale valore dei diplomati. Ancor più lamentano poi clamorose disparità tra le valutazioni espresse nelle regioni settentrionali e meridionali del Paese. Si deve sul punto precisare che il meccanismo di corrispondenza tra media dei voti e punti del portfolio, stabilito dalla legge, prevede che l’alunno scrutinato rientri in una fascia di punteggio che contempla una forbice di oscillazione legata ai cosiddetti “crediti formativi”. Tale meccanismo genera spesso, una gara di generosità, che si trasforma in corsa al rialzo dei voti in più discipline, con un inevitabile effetto di moltiplicazione, se si considera che tale lievitazione si può ripetere per tre anni negli scrutini finali, nella migliore delle ipotesi per studenti magari non particolarmente brillanti, ma dalla condotta scolastica encomiabile per dedizione e impegno nello studio.

di Mario Sorrentino - già dirigente scolastico


Si continua a parlare del caso della studentessa di un liceo di Venezia che ha fatto scena muta alla prova orale della maturità 2024 per protesta contro i voti bassi assegnati alle prove scritte alla sua classe. “Valutazioni assurde e umilianti a cui ho scelto, con altre due compagne, di oppormi”, queste le sue parole. Gli studenti ipotizzano che sulla valutazione abbiano influito dissapori pregressi– ipotesi tutta da dimostrare – tra la commissaria esterna di greco e il loro interno di latino. Orbene, tutti sanno che l’esame di maturità è solo una delle innumerevoli prove che una persona deve affrontare all’interno del suo processo di formazione studentesca o professionale.


Eppure, agli occhi della società, esso assume un valore molto particolare, un rito di passaggio che certifica l’ingresso nel mondo degli adulti. Un mondo fatto spesso di regole e doveri, ma in cui ancora può esserci spazio per un confronto, una voce fuori dal coro, e perché no: una protesta. Lo sanno bene tre studentesse di Venezia, che hanno deciso di non abbassare la testa di fronte a un contesto che non le faceva sentire rappresentate, combattendo l’esame di maturità in modo decisamente originale. Ad ogni modo sull’esame di maturità si sta ripetendo il solito copione che va in scena in Italia: si fugge dal nodo centrale del problema.


La questione principale non ruota tanto intorno all'imparzialità dei commissari interni o esterni, ma al valore legale del titolo di studio. Infatti, bisogna considerare che università e mondo del lavoro non si fidano delle valutazioni ottenute dagli studenti nella prova che conclude il loro percorso di studio, non le ritengono veritiere e corrispondenti al reale valore dei diplomati. Ancor più lamentano poi clamorose disparità tra le valutazioni espresse nelle regioni settentrionali e meridionali del Paese. Si deve sul punto precisare che il meccanismo di corrispondenza tra media dei voti e punti del portfolio, stabilito dalla legge, prevede che l’alunno scrutinato rientri in una fascia di punteggio che contempla una forbice di oscillazione legata ai cosiddetti “crediti formativi”.


Tale meccanismo genera spesso, una gara di generosità, che si trasforma in corsa al rialzo dei voti in più discipline, con un inevitabile effetto di moltiplicazione, se si considera che tale lievitazione si può ripetere per tre anni negli scrutini finali, nella migliore delle ipotesi per studenti magari non particolarmente brillanti, ma dalla condotta scolastica encomiabile per dedizione e impegno nello studio. Tutto ciò spiega, almeno in parte, la sfiducia nutrita da molti nella veridicità della votazione d’esame, che spesso non trova corrispondenza nei risultati che gli studenti ottengono negli esami universitari o in prove attitudinali di preselezione per accedere al mondo del lavoro. Inoltre, va detto che la scuola ha rinunciato ormai da decenni a essere selettiva.


Non è più ‘palestra di vita’ dove gli studenti, confrontandosi agonisticamente con programmi e compagni, conquistano una posizione ordinata gerarchicamente da un numero o un aggettivo: il voto. Dagli anni Settanta del secolo scorso è maturata un’idea di scuola diametralmente opposta: finalità prioritaria della scuola è accompagnare lo sviluppo cognitivo degli alunni attraverso attività didattiche. Comunque, è un dato di fatto che gli studenti, oggi, non danno affatto importanza al valore delle prove scritte e orali che devono sostenere e con i docenti che sono costretti a fare acrobazie mirabolanti per far combaciare gli esiti finali con il voto di ammissione per non sobbarcarsi le invettive dei genitori del perché il proprio figlio non ha ottenuto quel determinato voto che si aspettava oppure la tanto osannata “lode” e, quindi decida di fare accesso agli atti (una moda ormai in voga da qualche anno) con la compiacenza di qualche avvocato che promette miracoli che neanche i santi sanno compiere.


C’è poi da chiedersi altre cose. Se, per esempio, abbia ancora senso un esame di Stato dove tutti sono promossi malgrado lo scadimento generale della preparazione degli studenti. E chiedersi se, allora, non sia più importante analizzare, attraverso la ricerca sperimentale, quali modelli didattici possano dare migliori performance negli esiti degli apprendimenti dei nostri studenti, piuttosto che affidarsi a mode del momento o a un uso acritico delle nuove tecnologie, promosse nelle scuole di ogni ordine e grado, dimenticando quanto conti, oggi più di ieri, la capacità di ascolto, il valore della testimonianza, la capacità relazionale del docente, la dimensione dell’empatia, la capacità di affabulare e scuotere le coscienze di ragazzi e ragazze sempre più alla ricerca di valori di riferimento in un’epoca caratterizzata dal solipsismo e dall’anomia.


Ci si potrebbe chiedere quale sia il modo più appropriato per valutare le competenze dei nostri studenti e delle nostre studentesse e se per tale compito la formula dell’esame finale, al di là delle scelte sulla composizione delle commissioni, sui punti da attribuire alle singole prove, ecc., non sia ormai inadeguata, perché tutta orientata sull’accertamento tradizionale e mnemonico dei saperi disciplinari come se in questi anni nella scuola nulla fosse accaduto. C’è da chiedersi anche perché i nostri studenti debbano diplomarsi a diciannove anni mentre dappertutto i loro coetanei terminano gli studi con un anno di anticipo. Se l’ultimo anno di scuola non debba avere un aspetto più marcatamente orientante data la scarsa tenuta dei nostri studenti all’interno dei percorsi universitari.


Da questa rapida ricognizione le questioni legate all’Esame di Stato, ai suoi limiti, alle discussioni che solleva e alle proposte di modifica parziali o totali rimandano inevitabilmente tutte ad una problematica di più ampio respiro, cioè alla necessità che si discuta e si definisca una politica scolastica a tutto tondo, di cui non si ha traccia in Italia negli ultimi trent’anni a fronte di singoli, isolati e confusi provvedimenti di ogni parte politica, dettati da esigenze economiche e spesso nobilitati col titolo di “riforme” .


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