Vincenzo Siniscalchi: il penalista ribelle tra Maradona e l’Abisso

Felice Massimo De Falco • 5 ottobre 2025

In un’epoca in cui l’essere umano si riduce a un curriculum di successi effimeri, Vincenzo Siniscalchi emerge dal racconto di Domenico Ciruzzi non come un avvocato illustre – il “Maradona del codice penale”, potremmo definirlo con un’immagine che evoca dribbling geniali tra le maglie intricate della legge –, ma come un’esistenza autentica, un Sisifo napoletano che spinge il suo macigno non su per la collina del Palazzo di Giustizia, ma attraverso i vicoli della condizione umana, senza la paura di rotolare giù.

In un’epoca in cui l’essere umano si riduce a un curriculum di successi effimeri, Vincenzo Siniscalchi emerge dal racconto di Domenico Ciruzzi non come un avvocato illustre – il “Maradona del codice penale”, potremmo definirlo con un’immagine che evoca dribbling geniali tra le maglie intricate della legge –, ma come un’esistenza autentica, un Sisifo napoletano che spinge il suo macigno non su per la collina del Palazzo di Giustizia, ma attraverso i vicoli della condizione umana, senza la paura di rotolare giù.

Palepolis, o meglio Vincenzo Siniscalchi. Da Maradona a Fellini, storia di un penalista e intellettuale che ha fatto scuola (Armando De Negri Editore, 2024), non è un semplice necrologio biografico, ma un’ode esistenzialista all’uomo che ha scelto di abitare il mondo con gli occhi spalancati sul suo assurdo, intrecciando la toga con le passioni private in un unico, indissolubile atto di ribellione.

Ciruzzi, con la penna di chi ha condiviso con Siniscalchi il banco della difesa da suo prediletto allievo, ci restituisce non il mito, ma l’uomo: quel Vincenzo che, nato a Napoli il 7 agosto 1931, ha eletto la città eterna del diritto – la “Palepolis” del titolo, eco di una polis antica e decadente – come teatro della sua finitezza.

Figlio di un notissimo avvocato,
padre di Alessia e Francesca, e fratello dell’amata Gigliola, Vincenzo Siniscalchi cresce in un ambiente familiare legato al diritto, laureandosi in Giurisprudenza all’Università di Napoli nel 1955.

La sua vita si dipana come un romanzo: non solo avvocato, ma anche politico, negli anni Novanta siede
in Parlamento come indipendente nei progressisti di sinistra, portando una voce per i diritti dei più deboli; viene poi eletto al Consiglio Superiore della Magistratura, un impegno che intreccia con la sua passione per la difesa dei diritti, spesso dei più violati.

La sua esistenza si forgia nel crogiolo della Napoli post-bellica, dove il diritto non è astrazione, ma carne viva: la fame dei disoccupati, il sudore dei cortei, il sangue delle guerre di camorra,
il Santo di Buenos Aires giunto a Napoli per spintonare San Gennaro.

Siniscalchi guardava oltre il
codice Rocco, superando le rigidità di una legge fascista per abbracciare un’idea di giustizia viva e umana.



Nelle righe di Ciruzzi, la professione si fa biografia. Siniscalchi difende Maradona non per il glamour del pallone, ma perché in quel Pibe de Oro vede l’errante, l’immigrato che dribbla non solo i difensori, ma il destino crudele dell’esilio.

La sua vita s’incrocia col regista Federico Fellini. Non un cliente da red carpet, ma un buon conoscente, se non amico, con cui condividere notti di discussioni sul set della vita, dove il cinema – passione privata di Siniscalchi, rappresentava la loro affinità elettiva. Era critico appassionato di cinema.

Ironia camusiana, il 12 febbraio 2024, Siniscalchi muore in piedi con il microfono in mano, in un cinema durante un convegno dell’Anpi su memoria e diritti dei deboli.

Forse fu il segno di una metafora della sua esistenza: un flusso di immagini surreali, dove il grottesco del processo penale incontra il
sogno felliniano.

Conobbe
Eugenio Scalfari, il padre “affettivo” dei progressisti, che disegnava la linea politica alla sinistra.

La sua conoscenza arricchisce il cerchio di intellettuali che nutrono il pensiero di Siniscalchi ma
non ne contaminano l’indipendenza. Guardava Oltre.

“Il saper guardare oltre fosse la premessa del saper sentire e conoscere”, scrive Ciruzzi citando il maestro, e in questa frase si condensa l’essenza esistenzialista di Siniscalchi: non un garantismo formale, ma un atto di libertà, un impegno sartriano a scegliere per gli altri quando il mondo li condanna all’abbandono.

Ma è nei particolari inediti che Ciruzzi squarcia il velo, rivelando l’uomo dietro la toga. Ecco l’aneddoto del Movimento dei disoccupati organizzati: negli anni ’80, mentre Tangentopoli travolge i potenti –
De Mita, Califano, tutti passati per le sue mani con la stessa curiosità antropologica –, Siniscalchi abbandona le parcelle lucrose per difendere gratuitamente i “facinorosi” arrestati per resistenza, danneggiamenti, incendi di cassonetti durante i blocchi stradali.

“Quelle manifestazioni sembravano gli unici gravi episodi di ordine pubblico a Napoli”, rammenta Ciruzzi.

Ma per Siniscalchi erano grida di esistenze negate, rivendicazioni di chi non ha altro che il corpo da offrire. Dal libro esce fuori un fatto quasi inedito, emerso tra gli aneddoti come un sussurro dal passato.

Siniscalchi faceva entrava in studio i diseredati prima dei VIP, i politici restavano in coda dopo gli ultimi, perché
“elaborai le esperienze di un garantismo come regola assoluta di garanzia e dei diritti delle parti nel processo e non regole per presidiare solo i diritti di qualche privilegiato”.

È qui che biografia e professione si fondono in un’
esistenza engagée: Siniscalchi, intellettuale poliedrico non separa il privato dal pubblico. Intense e introspettive furono le discussioni su Tinto Brass con la moglie Marinella, che lo definisce “un partigiano contemporaneo”.

I processi sul terrorismo, o le guerre di camorra, affrontate da Siniscalchi come una sfinge di carisma , non sono trofei, ma ferite: rappresentano l’angoscia dell’avvocato che sa che la legge è un’illusione, un velo su l’assurdo. Eppure sceglie di strapparlo, un caso alla volta.

In Palepolis, Ciruzzi non moraleggia; evoca. Siniscalchi
è l’uomo che, a novantadue anni, muore non sdraiato, ma eretto, microfono in pugno, parlando di futuro per i deboli. Un’uscita di scena che Camus avrebbe invidiato.

La sua vita, intrecciata al diritto come un nodo gordiano, ci interroga: in un’epoca di avvocati da likes, influencer, tik-toker e processi via streaming, dove resta lo spazio per un’esistenza che non si arrende al cinismo e alle verità occultate?

E qui, la domanda si fa retorica e seria, un dardo puntato al cuore del lettore: l’allievo Domenico Ciruzzi, con la sua penna commossa, è il degno erede di quel penalista ribelle?

O siamo tutti, in fondo, solo allievi falliti di un maestro che ci ha insegnato a guardare oltre, sapendo che il macigno rotolerà sempre giù?

Si potrebbe aprire una finestra su un’eredità che sfida il presente. Siniscalchi ha incarnato un ideale di giustizia che va oltre il codice,
un’etica che intreccia difesa legale e impegno esistenziale.

La domanda è: può “l’allievo” Domenico Ciruzzi portare avanti questa fiamma in un mondo dominato dall’indifferenza?

O forse l’eredità di Siniscalchi è destinata a restare un’eccezione irripetibile?

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