Africanismo tra Arte e Moda - di Marianna Marra

Marianna Marra • 23 settembre 2024

L’arte africana, con la sua capacità di semplificazione senza impoverimento, la genialità nell’astrazione dei soggetti, la piena efficienza del realismo, l’idoneità nell'assolvere al ruolo specifico della committenza, con una creatività fuori dal comune, grazie alla maestria dei suoi poliedrici artigiani, si è guadagnata il rispetto che le era dovuto. Intorno al 1906, il pittore e scultore Henri Matisse iniziò a collezionare opere africane; la prima fu acquistata per 50 franchi in un negozio di antiquariato parigino. L’incontro con l'Africanismo condizionò anche la sua produzione.


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Ideata e a cura di Marianna Marra

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C’era una volta la frangia


A volte fitta, a volte meno, a volte di stoffa, a volte di carta, a volte di strass, a volte fatta di capelli, a volte di rafia. 

Prima di poter parlare dell’influenza della frangia nella moda, è opportuno sottolineare come la frangia, più che alla moda, appartenga prima di tutto all’arte, avendo in essa mosso i suoi primi passi. La frangia è, certamente, figlia di un mondo che si è fatto via via sempre più cosmopolita riversando la sua influenza nella moda. Le prime testimonianze della frangia, pare, risalgano addirittura all’arte mesopotamica, collocandosi intorno al 3000 a.C., grazie al ritrovamento di alcune statue vestite con gonne e scialli frangiati.


Vi sono sue tracce anche nelle figure piatte di natura ieratica dellAfricanismo. Per molto tempo l’arte africana è stata, erroneamente, bollata come grossolana e rudimentale; studi approfonditi hanno saputo però dimostrare il contrario, ponendo un occhio di bue su tali pregiudizi sfatandoli e evidenziando, che come avvenuto per tutte le altre arti, essa si sia ampiamente evoluta nel tempo. Il fatto che l’arte africana sia stata, per molto tempo, relegata nei musei antropologici/etnografici dimostra come, nella cultura occidentale, non sia stata mai presa seriamente in considerazione. Questo fenomeno è da ricondurre a due ragioni: una risiede nella trasmissione orale di cui, principalmente, si è caratterizzata, l’altra è da attribuire, certamente, al pregiudizio di ritenere tali popolazioni inferiori.


L’arte africana, con la sua capacità di semplificazione senza impoverimento, la genialità nell’astrazione dei soggetti, la piena efficienza del realismo, l’idoneità nell'assolvere al ruolo specifico della committenza, con una creatività fuori dal comune, grazie alla maestria dei suoi poliedrici artigiani, si è guadagnata il rispetto che le era dovuto. Intorno al 1906, il pittore e scultore Henri Matisse iniziò a collezionare opere africane; la prima fu acquistata per 50 franchi in un negozio di antiquariato parigino. L’incontro con l'Africanismo condizionò anche la sua produzione.

L’artista, essendo rimasto entusiasta di tali manufatti, decise di farne mostra a Picasso, il quale, incuriosito, si recò in visita al museo etnografico del Trocadéro, al suo rientro affermò di averlo trovato ripugnante e fetido; ciò nonostante, ammise di non essere riuscito ad andarsene, avviluppato dalla magia che quelle stesse opere gli emanavano, non tanto per il valore estetico, piuttosto per il loro potere sciamanico.

Poco dopo, apparve evidente che un vento primitivo stesse iniziando a spirare su Parigi, ispirando molti dei suoi artisti, tra cui Amedeo Modigliani. Modigliani ne fu influenzato nella propria arte scultorea dove, di fatto, è possibile evincere l’influenza spirituale dell’arte tribale africana. È triste però dover constatare come già durante la Biennale di Venezia, la mostra organizzata nel 1922 per valorizzare l’arte africana, essa fu vittima della politica del tempo, e che soltanto pochi anni fa si è riusciti, in Italia, nell’organizzazione di una importante mostra sull’Africanismo a cura di Ezio Bassani, uno dei più competenti in materia. Bassani, prima di andarsene, ci ha regalato queste sue considerazioni così lungimiranti che sono un lascito pregevole, e che oggi ho avuto piacere di condividere con voi.


Tornando alla frangia, questa volta dei capelli, possiamo averne testimonianza già nell’antico Egitto, dove questa seppe incorniciare di potere il volto della regina Cleopatra, la quale la scelse come suo carattere distintivo, attraverso un taglio di capelli geometrico, che ne raccontasse la fisicità e ne sottolineasse, con forza, il ruolo di regnante. La frangia, nella moda, possiamo ritrovarla già a partire dagli anni '20 sui vestiti, con taglio a sbieco, inventato dalla visionaria Madeleine Vionnet, talentuosa couturier e donna appassionata, lungimirante, umana.


Ci sono frange anche sui primi completi di mademoiselle Coco, contemporanea della stessa Vionnet. La frangia la ritroviamo sugli abiti da charleston, il celebre ballo di derivazione jazzistica diffusosi intorno agli anni '20 del XX secolo, prima in America e poi in Europa. Un ballo effervescente e scandito al ritmo sincopato di due mezzi, caratterizzato cioè dallo spostamento dell’accento ritmico della battuta da un tempo forte, o da una parte forte del tempo a un tempo debole o a una parte debole del tempo. Grande protagonista, essendosi fatta largo nella Parigi degli artisti, di conseguenza anche nello stile boho.


Se ne trovano testimonianze anche sulle giacche in stile western e sulle tipiche calzature in cuoio (pensate per proteggersi dai morsi dei serpenti). Leggendarie le frange indossate da icone della musica come quelle sui capispalla di Elvis Presley, quelle degli abiti di Tina Turner, Cher e Madonna (vestita nell’occasione da Jean Paul Gaultier). È curioso sapere come invece per Michael Jackson gli abiti, oltre che fare da accompagnamento alla performance musicale, assolvessero alla funzione di protezione della sua incolumità; assolutamente vietati nel suo guardaroba di scena quindi pantaloni ampi, cravatte e frange (a cui i suoi fan avrebbero potuto facilmente aggrapparsi). Eh già, la frangia fu ghettizzata dal re del pop. Tornando al binomio arte e moda, e in modo ancora più specifico, a quello costituito da pittura e moda, è doveroso citare come pioniere Yves Saint Laurent, che a metà degli anni'60, presentò la sua collezione rifacendosi alle fantasie geometriche dei quadri di Piet Mondrian.

Il successo che l'abito seppe riscuotere fu tale da elevarlo, per molti anni, a emblema della griffe.

È il 1967 quando Yves Saint Laurent presenta anche una collezione ispirata alle frange delle popolazioni africane; in seguito le stesse si ritroveranno su accessori come borse, scarpe, cinture, orecchini, collane, bracciali ma anche nell’arredamento di interni: frange su tappezzeria, tendaggi, cuscini, tappeti e molto altro.


Ecco che nasce anche lo stile boho chic degli interni. La frangia non smette praticamente mai di reinventarsi, dalla più chic alla più briosa, a ciascuno la propria. Non poteva di certo assentarsi quest’anno; infatti, c’è stato chi ha deciso di rispolverarla, ancora una volta, proprio durante la recentissima Milano Fashion Week. A farlo ci hanno pensato, tra gli altri, anche Prada e Pilosophy. È nella persona di Filippo Grazioli, direttore creativo della Maison Missoni, che ho trovato maggiore ispirazione per la stesura di questo mio pezzo. Con il suo talento e la sua ricerca ha dimostrato, nell’ultima collezione SS 2025, di potersi distinguere come solo con un attento studio è possibile fare.


Filippo Grazioli, non a caso, ha voluto mettere insieme frange e diverse reference tribali  condendo, il tutto, di una nostalgica scia di profumo anni '60; una scelta, la sua, che si evince, soprattutto, nello sfoggio dei vistosi accessori, come quelli ad anello o di altra natura geometrica, volutamente sovradimensionati, proprio allo scopo di rimarcare e incorniciare la provenienza, a volte temporale e, a volte etnica, della collezione.


Sono presenti, infatti, anche cristalline similitudini tra le tradizionali gonne di perline indossate dalla tribù etiope Nyangatom, conosciuta anche come Bume, che risiede lungo le rive del fiume Omo , e le "visiere" frangiate volute da Grazioli.


La collezione SS25 di Grazioli è un'esplosione di frange, righe, geometrie e reminescenze. È il sapiente proclama del ritorno, con orgoglio, di un'artigianalità indossabile.

Personalmente, alcuni dei suoi abiti, mi hanno ricordato anche l’arte di Henri Matisse, con analogie che la richiamano nei colori e negli effetti ottici dei tessuti; in particolare mi riferisco all’opera Jazz del 1943 e al collage de La lumaca, entrambe risalenti all’ultimo periodo creativo del pittore, definito da lui stesso come “La seconde vie”.

In questa nuova stagione di vita l’artista, piuttosto che esprimere amarezza per le sue precarie condizioni di salute, che lo costrinsero a letto, seppe farsi pervadere da un fervore di gioia,  di forme e di colori iniziando a Dipingere con le forbici , e regalandoci una moltitudine di opere “cut-out” la cui bellezza risiede proprio in quella semplicità, quasi infantile,  che diviene manifesto di assoluta libertà.

Il mini dress di Grazioli, con la sua variopinta tavolozza cromatica, la caotica sovrapposizione di forme tutte, volutamente, geometriche (come già accaduto per l'utilizzo di orecchini, collane, anelli e bracciali), con l'elezione di materiali come il PVC che ne ha suggellato, inequivocabilmente, lo spazio temporale e il mood progressista ci ha catapultato, nuovamente, in un decennio, quello '60, che ha fatto la storia del costume.

Grazioli, con la sua collezione SS25, ci ha fatto dono di un disegno perfetto, anzi, un bozzetto perfetto, quello con cui ha voluto emozionarci e erudirci.

Nella speranza che questo dettagliato approfondimento, nel mondo dell’arte e del costume, sia stato interessante per voi quanto lo è stato per me, per la mia rubrica

sTRUtto & parruCCO è tutto.

Io vi do appuntamento a ottobre.

Come sempre, grazie per essere stati in mia compagnia e a presto.


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