La disabilità inaccettata: quando predomina la paura

Mariarosaria Canzano • 2 settembre 2022

La disabilità inaccettata: quando predomina la paura

L’attesa della nascita di un figlio per ogni coppia, è un evento che si sogna per nove mesi e si concretizza nel momento in cui si stringe tra le braccia il piccolo fagottino che profuma di amore e tenerezza. Se però sopraggiunge la disabilità di un figlio, la famiglia, specialmente la madre, di fronte a un evento angoscioso, subisce un profondo scossone. Si passa dall’emozione della notizia dell’esito positivo del test di gravidanza, concepito come promessa di felicità, al vivere il verdetto della disabilità in grembo come un’esperienza catastrofica e amara.


Il bambino sicuramente sarà accolto e identificato come figlio quanto più la sua immagine reale appare coerente con le aspettative dei genitori, che desiderano rispecchiarsi in lui e gioire del riscontro fra immaginazione e realtà. Quando invece si scopre che il figlio idealizzato o immaginato, è affetto da qualche forma di disabilità, si piomba in uno stato di dolore, di preoccupazione, di grande e profonda ansia. Fronteggiare questi eventi, limitanti e stressanti, richiede un continuo adattamento a sé e all’altro; ogni programmazione della vita quotidiana, ogni progetto del nucleo familiare passa attraverso la condizione del bambino/figlio disabile. La figura maggiormente coinvolta nella relazione col figlio è proprio quella della madre, è lei che se ne prende cura da subito, che lo segue nei percorsi riabilitativi, scolastici, nella gestione del difficile quotidiano. Il benessere della madre si riflette sull’equilibrio dei figli e dell’intero nucleo familiare. Il malessere invece traspare dal volto e dagli occhi di quella madre che accetta la disabilità per condizione imposta ma non la digerisce.


Talvolta però ci si imbatte in alcune mamme che decidono nel momento in cui ricevono la diagnosi di disabilità dei propri figli, legata soprattutto a condizioni genetiche e quindi di natura ereditaria, di mettere fine alla sofferenza ancor prima che cominci, percorrendo la strada dell'IVG, acronimo di interruzione volontaria di gravidanza. Decidono così di abortire perché in talune condizioni soprattutto di malattie genetiche rare, mettere la parola fine ad una vita che ancora non pienamente formata e soprattutto non consapevole delle sofferenze future, diventa un atto, agli occhi di qualcuno, di pure egoismo ma per quelle “mamme coraggio” è un inno di forza perché si sceglie consapevolmente di non dare alla luce una persona infelice in un mondo sempre più impreparato alla disabilità, figurarsi alle patologie gravemente invalidanti o alle condizioni genetiche in cui la scienza stessa è ancora ignara di trovare le cause scatenanti.


Le storie di donne che decidono di abortire dinanzi alle diagnosi di disabilità e patologie gravi o gravissime che suonano come condanne a morte ce ne sono tante: Tonia racconta la sua esperienza in un’associazione del sud che accoglie donne che hanno scelto di abortire, in serbo ad un percorso di psicoterapia che l’aiuti a superare i sensi di colpa con il dolore annesso, umano e morale, per la scelta obbligata e necessaria dell’aborto. La mamma racconta, attraverso un percorso di psicoterapia in circle time, le varie fasi, dalle analisi positive che confermavano la gravidanza all’ultima ecografia che confermavano una rara malattia genetica neurologica al suo bambino: il nascituro non sarebbe mai diventato un bambino perché sarebbe deceduto intorno ai due anni, interamente trascorsi in una culla perché non avrebbe mai camminato parlato, visto e udito.


Ci si chiede allora quale sia il senso dell’accanimento alla nascita, il volere a tutti i costi mettere al mondo un figlio in talune condizioni e saperlo infelice perché subente della realtà circostante, di cui non potrebbe mai goderne appieno il bello, il buono e vivere le sensazioni e le emozioni perché limitato dalla patologia. La sensazione che si vive è quella della mancanza di pace interiore e del senso di colpa, per non averci provato e non avere accettato di farlo comunque nascere, ponendo fiducia nella ricerca scientifica perché la paura del pietismo della gente, soffoca con sguardi misti di compatimento e compassione, la vita già difficile del piccolo e della sua mamma, che ogni giorno farà i conti con lo scudo umano di se stessa pronta a difendere il suo bambino, pur sapendo di non essere eterna. La paura del futuro azzera ogni speranza di provarci, proprio nella prospettiva del “dopo di noi"


Dinanzi al rispetto della vita umana e della dignità delle persone, Tonia si interroga sul senso abbia mettere al mondo un bambino senza la consapevolezza del dono della vita, perché il neonato non è un bambolotto e non è paragonabile a un tubero, per cui la vita nella sua stranezza, peculiarità e particolarità merita valore.

Emma, anche lei parte integrante di un’altra associazione stavolta al nord che nasce con lo scopo di ascoltare donne e madri con esperienze di vita tra le più dolorose quali l’aborto, racconta la propria esperienza molto simile a quella delle altre mamme ma più difficile in quanto la gravidanza giunge al termine e solo alla fine dell'ottavo mese, consigliata e supportata dal suo medico, decide per l’aborto terapeutico in quanto il ginecologo scopre anomalie muscolari e alle ossa del nascituro, solo più tardi un esame approfondito in grembo, rivelerà la sindrome genetica che è incompatibile con il mondo esterno.


Voci di donne e di madri, complici, ferite, talvolta in una dimensione di contraddittoria realtà nelle quali si percepisce la sofferenza che si confronta con il dolore degli altri per accogliere spazi e momenti di vita quotidiana per ritrovare il desiderio, volontà e la consapevolezza di andare avanti perché nonostante il dolore, c'è sempre la luce in fondo al tunnel con un barlume di speranza. E di fronte al mostro di una diagnosi di disabilità o malattia genetica nessuno può sentirsi superiore nel dare sentenze o sparare giudizi perché bisognerebbe trovarsi esattamente nella medesima situazione e vestire gli stessi panni per capire quanto sia difficile mantenere l’equilibrio tra testa e cuore e scegliere, seppur non serenamente, il male minore per il bene di tutti.


E quando la testa sceglie, è sempre il cuore a fare i conti con la sofferenza che accompagna la madre per il resto dei suoi giorni. Quando ciò accade, per favore, se potete aiutate queste donne e se non vi tocca la faccenda, fate silenzio!

 

 


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