"Don Riboldi era uno che ti insegnava il coraggio", il libro di Pietro Perone

redazione • 15 febbraio 2023

"Don Riboldi era uno che ti insegnava il coraggio", così lo racconta Pietro Perone, giornalista de Il Mattino

Chi era Don Riboldi?

 

E' stato tra i protagonisti per circa cinquant'anni della storia d'Italia e ha insegnato a più generazioni di giovani ad avere coraggio. Parroco di Santa Ninfa, dopo il devastante terremoto del Belice, fu il primo prete a protestare contro il governo per una ricostruzione soltanto promessa. Con i bimbi di questo piccolo centro in provincia di Trapani si catapultò a Roma per fare sentire la voce degli ultimi nei palazzi della Politica, quando presidente del Consiglio era Aldo Moro e al Quirinale risiedeva Giovanni Leone. Poi andò in Vaticano, faccia a faccia con Paolo VI che lo incoraggiò ad andare avanti in quella battaglia. Il primo esempio di Chiesa in uscita, quella di cui oggi parla Francesco. Poi la “promozione” a Vescovo, a capo della Diocesi di Acerra, dove prima lottò contro i tuguri del centro storico e poi decise di prendere di petto i boss, in un paese geneticamente camorristico. Lungo la sua strada trovò gli studenti, stanchi di vivere in territorio dove in un solo anno, il 1982, si contarono 284 morti ammazzati. Da qui la decisione di sfidare il padrino Raffaele Cutolo nella “sua” Ottaviano, prima in mille, poi in diecimila con la storica marcia che vide alla testa dei giovani don Riboldi, il vescovo di Nola, Giuseppe Costanzo, l'allora segretario regionale del Pci, Antonio Bassolino, Raffaele Tecce a capo del piccolo Pdup e Luciano Lama, leader di una fortissima Cgil. Gli operai dell'Alfasud di Pomigliano, come quelli della Magneti Marelli o della Fincantieri di Castellammare marciarono insieme con la Chiesa per dire basta con la camorra.

Ma il fatto che lei mi chieda chi fosse don Riboldi la dice lunga sulla rimozione della memoria che è stata compiuta in questo Paese. Sicuramente non mi avrebbe fatto la stessa domanda se avessimo dovuto parlare di Sandokan o di Messina Denaro, di Riina o dello stesso Cutolo. Ecco il motivo per cui ho deciso di raccontare la storia di un vescovo, eroe civile, e dei suoi “ragazzi”. La speranza di salvare dall'oblio una bella stagione di coraggio di cui anche io sono stato tra i protagonisti, l'esatto contrario di quella Gomorra che invece oggi tutti conoscono”.


 
Era un uomo in mezzo ai giovani per i giovani. Quali sono stati i suoi insegnamenti più grandi?


“Ha insegnato che la criminalità organizzata può essere combattuta anche dalla società, oltre che dai magistrati e dalle forze dell'ordine. Alzare argini alla penetrante cultura mafiosa dovrebbe essere compito quotidiano della politica, cosa che purtroppo non accade. Ma don Riboldi ha anche insegnato alla Chiesa, soprattutto meridionale, che bisogna “sporcarsi le mani”, stare insieme alla gente, farsi popolo come è ben spiegato nella lettera di cui fu l'artefice “Per amore del mio popolo non tacerò”, la prima, durissima presa di posizione dei vescovi campani contro la camorra, ripresa nove anni dopo da don Peppe Diana, un grido disperato che gli costò la vita”.


Don Riboldi balzò alle cronache sopratutto per la sua lotta contro la camorra. In che contesto si svolgeva la sua missione?


Un contesto di guerra, l'ho detto prima. Nella stessa serata in più comuni del Napoletano si contavano due, tre omicidi. Per uscire di casa dovevi calcolare quali strade fossero meno pericolose, evitare i luoghi frequentati da camorristi, stare alla larga dai circoli ricreativi molto spesso teatro di agguati. Un clima solo apparentemente diverso da quello di oggi: ci sono meno morti sparati, ma molti più ragazzini accoltellati che replicano i modelli appresi in tv guardando le fiction sulla camorra degli anni Duemila. Massimo Di Lauro è stato assunto a modello da tanti, per non parlare di Genny Savastano o dell'Immortale. Ecco lei non mi chiederebbe mai chi sono”.


 

 

Era solito sfidare faccia a faccia i criminali. Cosa può raccontare in tal senso?


Don Riboldi è stato profondamente e testardamente rosminiano, nel senso che il dialogo con il nemico è la strada per giungere al fine ultimo: la conversione. In uno storico pomeriggio del marzo 1986, nel giorno di Pasqua, don Riboldi si recò nel carcere di Bellizzi Irpino per confessare Cutolo e nacque un rapporto epistolare con il padrino, tanto che alcuni brani inediti di queste lettere sono pubblicate nel mio libro”.


Don Riboldi era “stranamente” un simbolo del Pci. Come si coniugava con la sua fede?


Il Pci fu l'unico grande partito dell'epoca a sostenere la ribellione degli studenti e la battaglia di quel vescovo. Don Riboldi non ha mai chiuso la porte in faccia a nessuno e se anche la Dc o il Msi fossero stati pronti a scendere in piazza sicuramente sarebbero stati i benvenuti, purtroppo non accadde. Alla prima assemblea di Ottaviano non c'era un solo gonfalone, arrivò solo il telegramma di adesione del partigiano Sandro Pertini, presidente della Repubblica. Poi via via il fronte cominciò ad allargarsi e anche i giovani cattolici, molti tra loro democristiani, presero parte alle manifestazioni che via via “contagiarono” l'intero Mezzogiorno in quella che fu la più grande mobilitazione giovanile dopo il Sessantotto”.
- Il vescovo chiedeva una riforma che prendesse tutto il Mezzogiorno. In cosa consisteva?

Sollecitava la politica a creare le condizioni affinché il Sud uscisse dall'assistenzialismo e si creasse lavoro vero, lo sviluppo economico soltanto promesso. Quello che non è avvenuto, tanto ci siamo ritrovati finanche con il Reddito di cittadinanza: non ti do il lavoro, ma ti consento di sopravvivere. La presa d'atto del fallimento di una politica ha aveva invece l'obbligo a creare le condizioni affinché il Sud fosse economicamente indipendente, soprattutto quando coloro che aveva marciato al fianco del vescovo si ritrovarono in posti di responsabilità istituzionale”.
 
 

I suoi luoghi ora sono quelli della Terra dei Fuochi. Don Riboldi aveva fiutato già qualcosa?


Il grande rammarico di don Antonio fu proprio questo, non avere capito, e con lui chi aveva condiviso la sua battaglia, che mentre si combatteva chi sparava, altri camorristi in giacca e cravatta cominciavano ad avvelenare il Creato, per utilizzare una frase pronunciata dal Papa quando sorvolò con un elicottero la Terra dei fuochi. Acerra, la città di don Riboldi, è stata al centro del più grande traffico di rifiuti nocivi avvenuto in Europa e in quel territorio martoriato vengono ancora oggi localizzati impianti ad alto impatto ambientale, insieme con l'inceneritore ormai da tempo in funzione. Uno schiaffo: dove era rinata la speranza facciamo arrivare veleni su veleni. Don Riboldi capì, pur se in ritardo, ciò che stava avvenendo e inseguì il sogno di far realizzare dallo Stato un polo pediatrico, il tentativo disperato di cambiare il corso della storia. Tutti gli dissero sì, fecero vedere progetti e delibere di finanziamento, ma nulla avvenne. Uno dei molti tradimenti e alcuni tra coloro che all'epoca presero in giro il vescovo occupano ancora posti nelle amministrazioni locali. 


Quale monito ci lascia?


Più che un monito, a cento anni dalla nascita e a 40 dalla marce anticamorra, la vita di don Antonio dovrebbe tornare a essere un esempio, studiata nelle scuole, raccontata ai ragazzi. Sicuramente quel grande coraggio non merita di essere dimenticato mentre toccherebbe alla politica riscattarsi dei troppi tradimenti commessi in passato in sua memoria.

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