L'Oriente cresce sfruttando i minori

Mario Volpe • 23 gennaio 2023

L'Oriente cresce sfruttando i minori

I tempi di “Miseria e nobiltà” messi su pellicola dal grande Antonio De Curtis, in arte Totò, in cui il mitico Peppiniello –interrogato dal padrone– ripeteva la litania “Vincenzo m’è padre a me” sembrano lampi di storia. Eppure, ancora oggi tantissimi bambini nel mondo, meno fortunati di Peppiniello, lavorano alle dipendenze di adulti crudeli allo scopo di soddisfare i continui desideri di consumismo di altri adulti ricchi o benestanti.  


Da quando i paesi occidentali hanno aperto gli scambi commerciali verso i paesi del Terzo Mondo, scoprendo la manodopera a basso costo, è nata una nuova forma di sfruttamento e schiavismo i cui protagonisti più sofferti sono i bambini lavoratori. Non è più necessario fare prigionieri per schiavizzarli e trasferirli nelle terre di lavoro. Non ci sono più le navi negriere con il loro carico di morte e sofferenza; non c’è più la Clotilda, l’ultima grande nave di schiavi. Oggi i mari sono attraversati da galleggianti mostri d’acciaio ricolmi di migliaia di container, scatoloni di ferro tappati di ogni genere di prodotti, molti dei quali confezionati dalle piccole mani di bambini oppressi dal bisogno di sopravvivere.


Manine deformate per realizzare giocattoli, per tessere i tappeti che abbelliscono le nostre case, che ammorbidiscono il cuoio dei palloni da calcio. Manine che cuciono e dipingono i tessuti con cui i maestri della moda si glorificano del proprio lustro creativo. Mani che grattano nelle miniere per portare alla luce minerali dai nomi improponibili, conosciuti più comunemente come terre rare e ampiamente utilizzati nella costruzione di catalizzatori, batterie, semiconduttori per computer e cellulari, oltre ad essere materia prima per l’industria mobilità elettrica. Tutto ciò per costruire cose straordinarie, oggetti all’apparenza materializzati direttamente da film di fantascienza, e capaci di prometterci una vita più semplice, più sicura, con tantissime comodità; una sorta di paradiso in terra nelle cui segrete si lasciano marcire i piccoli schiavi della produzione. Bambini invisibili, spesso legati come bestie sulle postazioni di lavoro, che lavorano sette giorni su sette, dall’alba al tramonto per poche monete a cui noi stessi non diamo più valore.


Secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale per il lavoro esistono settantaquattro mila bambini, dai tre ai cinque anni di età, impiegati nella produzione della moda a causa di un insostenibile principio di concorrenza del libero mercato, focalizzato unicamente sul profitto. Malgrado alcune grandi case di moda abbiamo apertamente dichiarato di bandire le catene di produzione dalla Cina, dal Pakistan, dalla Thailandia, dall’America Latina e da tutti i paesi che impiegano manodopera minorile, esistono brand che soffocano i propri fornitori con pressanti richieste di prezzi sempre più bassi, incancrenendo la piaga dello sfruttamento sui luoghi di lavoro. Uno sfruttamento che si tramuta spesso in violenza e morte come già accaduto alla piccola Zhora, una bambina pakistana di nove anni, uccisa dal suo datore di lavoro per aver liberato un uccello in gabbia.


Ad oggi di Zhora nel mondo se ne contano ufficialmente centocinquanta quattro milioni, di cui fanno parte un piccolo esercito di bambini congolesi impiegati nelle miniere per estrarre litio e cobalto da utilizzare nella produzione di batterie per la mobilità sostenibile. Solo per quest’anno, come riporta il quotidiano l’Avvenire, sono state strappate dalle viscere della terra novantanove mila tonnellate di elementi per l’elettronica di cui ben novemila estratte interamente a mano. Una contraddizione che ha spinto l’Unione Europea a formulare un regolamento per invitare i produttori occidentali a utilizzare soltanto cobalto etico, sperando di porre una barriera all’impiego dei bambini in miniera con l’introduzione di certificazioni che possano tracciare la provenienza delle terre rare e della loro metodologia d’estrazione.


Ma un segnale profondo e significativo dovrebbe arrivare dai consumatori, da quelle stesse persone che da un lato s’affannano nelle lotte per il clima o per garantire i diritti degli animali e dall’altro cambiano cellulare ogni sei mesi lamentandosi di continuo dell’autonomia della propria auto elettrica, ignorando che la vera salvezza del mondo passa dal sorriso dei bambini, dal loro diritto all’infanzia, allo studio e non da una connessione di rete più veloce o da una share-bike abbandonata lungo i marciapiedi di una strada.



Mario Volpe


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