LIfe on Mars? - a cura di Vittorio Schiavone - Infinity war

Vittorio Schiavone • 13 agosto 2023

Nessun medico, tantomeno uno psichiatra, può sapere tutto: nello specifico, ad uno psichiatra è chiesto di sapere cosa un paziente ha, ma anche cosa non ha, disconfermando una diagnosi di buon senso per porre il dubbio che il problema sia un altro, aiutando così nel processo diagnostico. Il duro approccio alla diagnosi secondo Vittorio Schiavone, primario di psichiatria alla Clinica Hermitage di Capodimonte (Na)

“Viene con questa diagnosi, secondo te va bene questa terapia?”.


Il mondo delle consulenze psichiatriche in altri reparti è un mondo molto affascinante. Raramente trovo una corrispondenza comprensibile tra la diagnosi posta (quando c’è) e la terapia; ancora più raramente, mi trovo d’accordo con la terapia impostata. Mi rendo conto che il mio tono, quando parlo del mio lavoro e di quello degli altri, possa sembrare spocchioso ed inutilmente critico. Sulla spocchia posso dire poco, perché può essere un mio difetto che, in alcuni casi, non riesco a celare, ma la critica proprio no, quella non è mai inutile. La critica di un operato non è mai rispetto ad un percorso clinico, perché è lecito interpretare i dati in una maniera diversa dalla mia, così come è possibile per tutti noi sbagliare. La critica nasce dalla mancanza di metodo, e quella, se non si è particolarmente fortunati, conduce sempre ad un errore.


Così, quando mi trovo a fare una consulenza, divento il protagonista di una serie televisiva. Non Doctor House, perché lì gli psichiatri venivano tenuti in una bassissima considerazione e si utilizzava un metodo per prova ed errore che non è etico al di fuori di una finzione estremamente finta (in Italia House sarebbe stato denunciato sulla fiducia, prima ancora di visitare un paziente). No, divento una sorta di investigatore. Lo divento ogni qual volta il paziente non sa raccontarmi la sua storia, e quando non c’è un familiare che possa aiutarmi a capire.


La psichiatria si basa sulle storie, sul tempo, sui fatti che si devono decodificare ed interpretare perché, come dicevano i Led Zeppelin, “sometimes words have two meanings”. Quindi, quando non capisco niente e magari mi trovo con una persona devastata dal punto di vista fisico, devo indagare. Innanzitutto sulla sua salute, perché spesso i sintomi di chi mi trovo di fronte dipendono dalla stessa malattia per la quale è stato ricoverato o per le complicanze sopraggiunte. Spoiler: sì, lo psichiatra è laureato in medicina. Appurato il contributo che queste condizioni mediche possono avere, proseguo le indagini. Chiamo i familiari, cerco con loro di ricostruire come il loro congiunto fosse prima del ricovero, se aveva avuto problemi “mentali” o se questi erano sopraggiunti (una operazione di “vertere” degna del miglior traduttore) dopo il ricovero.


Quando non sono soddisfatto, provo a chiamare i colleghi della salute mentale, sperando possano fornirmi qualche notizia in più e, alla fine, i colleghi che hanno inviato il paziente. Quando va bene, riesco a raccogliere qualche informazione, ma troppo spesso mi imbatto in ricordi frammentari, in colleghi assenti che sono gli unici depositari della, in cartelle incomplete, in diagnosi tramandate per tradizione orale che si perdono nella notte dei tempi e che nessuno può confermare. Non è colpa di nessuno, badate bene, è il sistema che funziona così; solo non si capisce perché non potrebbe funzionare in una maniera diversa. Tant’è, se questo è il materiale e non ci soddisfa, dobbiamo ricominciare da capo.


Dobbiamo ritornare a parlare con il paziente, visitandolo incrociando tutti i dati che abbiamo a disposizione con quelli strumentali e laboratoristici che ripetiamo da capo. Dobbiamo “ripulirlo” di tutti quei farmaci che ci confondono come magari confondono lui, dobbiamo cercare spiegazioni migliori di quelle che una diagnosi talora “lost in tranlsation” ci suggerisce. In una parola, dobbiamo fare il nostro lavoro, quello di medici. Del resto, se il paziente venisse con un codice a barre in fronte che rimanda anche alla terapia più corretta, noi saremmo disoccupati, è bene ricordarlo. Cosi come è bene ricordare, a noi stessi ma soprattutto ai familiari, che non siamo santi e non facciamo miracoli, ma più umanamente (e forse, più immodestamente) siamo professionisti e uomini di scienza.


E gli uomini di scienza non sanno trasformare l’acqua in vino, ma sanno trasformare una diagnosi generica di “depressione” in quella di una malattia autoimmune o quella di “attacchi di panico” in una rara condizione di eventratio diaframmatica. Nessun medico, tantomeno uno psichiatra, può sapere tutto: nello specifico, ad uno psichiatra è chiesto di sapere cosa un paziente ha, ma anche cosa non ha, disconfermando una diagnosi di buon senso per porre il dubbio che il problema sia un altro, aiutando così nel processo diagnostico.

“Ho visto 14,000,605 scenari alternativi, e solo uno è possibile”. Se vi siete persi dietro l’uso dell’inglese, del latino e di citazioni improbabili, benvenuti nel mio mondo: è questa la sensazione che provo io ogni giorno, quando provo a fare il mio lavoro.

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